Una vita da campione, in pista e fuori

È passato poco meno di mezzo secolo dai tempi gloriosi in cui duellava con Eddy Merckx sulle strade delle corse, infiammando di passione i tifosi di tutto il mondo. Eppure, a dispetto del tempo che, si dice, offusca i ricordi e la memoria, la popolarità di Felice Gimondi è rimasta pressoché intatta.

Basta andare alla partenza o all'arrivo di una tappa del Giro d'Italia per rendersene conto. Se c'è lui, gli applausi e le attenzioni del popolo ciclistico viaggiano in una direzione unica, non c'è maglia rosa che tenga.

Nonostante le apparenze di uomo riservato e di scorza dura, a Gimondi queste manifestazioni d'affetto toccano le corde del sentimento. «Constatare che dopo tanto tempo la gente ha ancora un ricordo tanto vivo di te fa indubbiamente piacere» dice compiaciuto il grande campione bergamasco. «La cosa sorprendente è che queste testimonianze non giungono soltanto da sportivi della mia generazione, testimoni oculari di quei lontani avvenimenti. Il mio nome è urlato anche da giovani che, a quei tempi, non erano ancora nati. Vuol dire che hai fatto qualcosa di importante per la tua terra, per la tua gente, per il tuo sport, e questo è motivo d'orgoglio».

Lei ha vinto tutto nella sua lunga carriera: Giro, Tour, Mondiale, Sanremo, Lombardia, Roubaix, grandi classiche a cronometro, per un totale di quasi 150 corse. E poi le epiche sfide con Merckx. Per quale motivo pensa che la gente la ami ancora tanto? Per i suoi trionfi o più per le sue battaglie col Cannibale?

Per entrambe le cose. Vede, nei primi tre anni il numero uno al mondo ero stato io. Avevo vinto il Tour a 22 anni, nel 1965, l'anno dell'esordio nei professionisti; Parigi-Roubaix, Parigi-Bruxelles e Giro di Lombardia nel 1966, Giro d'Italia nel '67. Poi è arrivato Merckx. All'inizio erano state battaglie alla pari, dopodiché mi sono reso conto che Eddy aveva un motore di cilindrata superiore. Ho dovuto modificare il mio atteggiamento in corsa: meno spavaldo, più calcolatore. Ho riconosciuto la sua superiorità, ma non mi sono mai rassegnato, tanto è vero che nel finale di carriera, a dispetto di un suo sfiorimento precoce, io ho continuato a vincere, battendolo in alcuni grandi appuntamenti: Campionato del mondo 1973, Giro d'Italia '76. Ecco, credo che la gente abbia apprezzato soprattutto questa ostinazione di non essermi mai considerato battuto, nonostante la presenza di quel mostro soprannominato "il cannibale".

Ama ancora tanto il suo sport...
Da morire. Tanto è vero che ci sono rimasto con altre mansioni. Della "Bianchi", la bicicletta su cui ho corso tutta la mia carriera, sono un testimonial e ne presiedo la squadra corse, che svolge attività fuoristrada: ciclocross e mountain bike. Inoltre, insieme al mio amico don Mansueto Callioni, ho fondato una scuola di ciclismo a Sombreno, che vanta una cinquantina di ragazzi tesserati. Infine, grazie all'amico Beppe Manenti, viene organizzata ogni anno un'imponente manifestazione cicloamatoriale che porta il mio nome. Quest'anno l'appuntamento con la Gran Fondo Felice Gimondi è fissato per il 10 maggio.

Il ciclismo ha attraversato un brutto momento a causa del doping. Per lei rimane sempre una disciplina credibile, nonostante tutto?
La piaga del doping è emersa perché il ciclismo ha avuto il coraggio di mettersi in discussione. Altre discipline non l'hanno fatto, ma, mi creda, non ne sono immuni. E poi ogni sport ha i suoi problemi, basta vedere che cosa sta succedendo nel calcio: fra scommesse clandestine e partite truccate non ci si salva più.

Ma si può dire che oggi il ciclismo stia uscendo da questo tunnel?
Sicuramente sì. Il periodo nero, a cavallo del Millennio, culminato col caso Armstrong è un capitolo che ci si è lasciati alle spalle, anche se qualche caso isolato continuerà a saltar fuori, perché la tentazione di ottenere risultati facendo meno fatica c'è sempre stata, anche ai miei tempi, e ci sarà sempre. Tuttavia l'intensificazione dei controlli e l'accresciuta presa di coscienza dei corridori stanno riconducendo il problema entro limiti diciamo così fisiologici.

Quindi lei a un ragazzo consiglierebbe tuttora il ciclismo come sport da praticare?
Altroché. La bicicletta è una grande scuola di vita: insegna il rispetto dell'avversario e della natura, lo spirito di sacrificio, ti insegna a scoprire i tuoi limiti. Ai ragazzini consiglio inizialmente di dedicarsi alla mountain bike: nei prati e nei boschi non ci sono i pericoli della strada, si respira aria buona, ci si impratichisce del mezzo e si impara a guidare la bicicletta. Intorno ai 15-16 anni, una volta padrone del mezzo, il ragazzo è pronto per cominciare a correre su strada.

NONNO FELICE
Felice Gimondi, nato a Sedrina nel 1942, è sposato con Tiziana, conosciuta nel 1966 a Diano Marina, durante un ritiro della sua squadra "Salvarani”, sposata due anni dopo. E quando gli si chiede qual è il momento più bello della sua vita risponde: “In assoluto il giorno del mio matrimonio e la nascita delle mie due figlie “: Norma, avvocato penalista, e Federica, che lavora nell'agenzia di assicurazioni di cui Felice è titolare ed è mamma di un bimbo di 6 anni, Davide. Come corridore la gioia è legata al giorno in cui vinse il Tour de France a soli 22 anni “e smisi di fare il vice postino a mamma Angela”.

a cura di ILDO SERANTONI