Camilla Bernasconi racconta la sua storia di dolori, da una storta a una caviglia da bambina alla cura per la spondiloartrite.
Ha un volto dolcissimo in una cornice di capelli castani, è simpatica, ha la parlantina facile e due occhi cangianti tra il verde e l’azzurro, un sorriso accogliente che le provoca ai lati della bocca due fossette. È laureata in comunicazione media e pubblicità e lavora come marketing specialist nel dipartimento radio di Mediamond. Ora abita a Brembate con il compagno, dopo essere stata fin dalla nascita cittadina di Ponte San Pietro. È membro dell’Anmar Young, Associazione Nazionale Giovani Malati Reumatici, che coglie ragazze e ragazzi tra i 18 e i 35 anni che soffrono di patologie reumatiche. Partecipa, inoltre, attivamente al progetto ASTEROIDI (lo spazio giovani di ALOMAR ODV - Associazione Lombarda Malati Reumatici) che promuove iniziative per sensibilizzare sull’impatto delle malattie reumatologiche sui giovani (dai 18 ai 35 anni).

E pensare che fino a pochi anni fa era costretta a usare le stampelle per potersi muovere. E aveva bisogno dei genitori e della sorella maggiore per vestirsi. Oggi Camilla Bernasconi, 29 anni, è una donna felice che riesce a fare tutto da sola anche se la sua malattia non è stata ancora debellata completamente. Il miracolo lo deve ai farmaci biologici che le ha consigliato il dottor Ennio Giulio Favalli all’ASST Gaetano Pini di Milano per combattere la sua spondiloartrite sieronegativa.

«Il mio calvario è cominciato nel 2002”, ci racconta. “Avevo poco più di nove anni ed ero una bambina vivace, forse troppo, mi piaceva giocare, arrampicarmi sugli alberi. E un giorno mi sono presa una storta alla caviglia destra. Ho cominciato a mettere ghiaccio, pomate varie, a prendere medicine antinfiammatorie ma il dolore e il gonfiore non passavano. I miei genitori, mamma insegnante alle elementari e papà ingegnere alla IBM, si sono preoccupati e, dopo svariate visite presso luminari in ortopedia, mi hanno portato al Gaetano Pini dove mi hanno sottoposta a due biopsie e tanti altri esami, anche quelli per escludere un’eventuale leucemia. Ma intanto il dolore era sempre più forte. Altri medici, altri ricoveri senza risultati. Di nuovo al Pini dove mi diagnosticano “osteite cronica multifocale ricorrente” e mi danno una terapia a base di cortisone, antidolorifici e antinfiammatori. Ma la mia situazione precipita. Ormai l’infiammazione si espande in tutte le articolazioni, alle ginocchia, alle spalle, alle braccia, ai polsi, alle mani, ai piedi e ho dolorose fitte intercostali. Devo aiutarmi con le stampelle. Mi sento una ragazzina sfigata che zoppica. Sono timida e non riesco sempre ad aprirmi ai miei coetanei, anzi sono io che quando mi chiedono di uscire, di fare una passeggiata, rifiuto perché per me sarebbe un calvario e conterei ogni singolo passo pur di tener occupata la mente per non sentire troppo dolore. Punto saldo è la mia amica del cuore che mi è ancora vicina oggi. E mi rifugio nella musica, nello scrivere le mie sensazioni sul diario. Se le rileggo oggi ritrovo pagine piene di dolore mentre in quelle delle mie coetanee ci sono tutt’altri racconti. Ero arrabbiata, non riuscivo a fare nulla, neppure a sperare. Mi sarebbe piaciuto ballare, lo facevo per qualche secondo ma subito dopo le mie articolazioni si ribellavano facendomi soffrire. Cercavo allora di fare dei movimenti semplici, ci provavo ma il dolore mi bloccava. Così per anni, soffrendo tanto. I medici mi davano medicinali, i cosiddetti FANS, che lenivano i dolori. Io volevo vivere la mia vita e allora mi imbottivo di farmaci e finalmente potevo fare qualcosa pur sapendo delle conseguenze che avrei subito il giorno dopo». E di cose ne ha fatte, soprattutto tra il 2015 e il 2018: corsi di fotografia, impegno per due anni con i volontari dell’Archivio e del Gruppo Cultura del Comune di Ponte San Pietro allestendo anche la mostra fotografica “Gaudenzio Bernasconi, quando il calcio è poesia“; assistente educatrice e reporter fotografica alla Gamec di Bergamo durante gli “Art Fellowship” e tanto altro, ma l’esperienza che l’ha aiutata a perdere la sua timidezza è stato il lavoro come bagnina e animatrice in un villaggio turistico a Milano Marittima. «Lì ho reagito alla mia forte timidezza”, ci dice “dovevo essere sempre serena e socievole per lavoro. Ma mi ha aiutato anche il supporto psicologico. La prima volta è stato al liceo Falcone, la mia scuola a Longuelo. Dopo il primo incontro con la psicologa mi sono sentita sollevata, libera. Purtroppo, l’ho scoperto tardi e invece è importantissimo rivolgersi subito a uno psicologo. Mia mamma ha tentato più di una volta, all’inizio della malattia, a convincermi a farmi aiutare da uno psicologo, ma io non volevo».

Poi la svolta sette anni fa quando Camilla inizia la terapia con i farmaci biologici. «Ho intravisto finalmente la luce in fondo al tunnel dopo anni passati tra ricoveri e visite specialistiche, dopo un’operazione all’anca dove mi hanno impiantato una protesi per una coxartrosi secondaria alla spondiloartrite. Con questa nuova terapia la mia vita è cambiata, non ho più picchi di dolore, non trascorro più lunghi mesi a letto, non uso più le stampelle. Anche se ogni tanto le mie articolazioni si fanno sentire. È iniziata una nuova fase di vita in compagnia di una nuova me». E ha trovato anche l’amore, Federico. «Lo conoscevo di vista tramite compagnie», dice. «Abbiamo le stesse passioni musicali e andiamo spesso per concerti. E ora viviamo insieme». Ogni otto settimane Camilla deve sottoporsi alla terapia con il farmaco biologico, e quando si sente fragile emotivamente, chiede supporto al compagno, che la sostiene sempre accompagnandola al Gaetano Pini. Dove per lei tutto è iniziato. 

I farmaci biologici e la psicologia cambiano la vita
«La spondiloartrite è una malattia di cui non si conosce ancora l’origine. Provoca dolore che interessa o la colonna vertebrale, impedendo al paziente di stare in piedi o muoversi facilmente, oppure, come successo a Camilla, colpisce articolazioni periferiche, come appunto caviglie, ginocchia, polsi e le piccole articolazioni di mani e piedi . È fondamentale quindi che i medici di medicina generale conoscano le patologie reumatologiche per indirizzare correttamente i pazienti al reumatologo». A spiegarlo è il dottor Ennio Giulio Favalli dell’ASST Gaetano Pini-CTO che ha preso in cura Camilla nel 2014 quando la giovane ha iniziato la terapia con i farmaci biologici. «Sono una classe di farmaci capaci d’inattivare in modo mirato e selettivo specifici mediatori della risposta immune che giocano un ruolo chiave nello sviluppo delle malattie reumatiche» spiega il dottor Favalli. «Nonostante siano in commercio da ormai oltre 20 anni, i farmaci biologici a tutt’oggi sono l’ultimo stadio del nostro protocollo di cura, che si rifà alle indicazioni internazionali in ambito reumatologico, che inizia con una prima visita e la prescrizione di tutti gli esami utili a individuare la patologia. La terapia prescritta in partenza è con farmaci che possiamo definire di primo livello, come cortisone, antinfiammatori, sulfasalazina, methotrexate. Si arriva a prescrivere i farmaci biologici quando quelli di primo livello non risultano più efficaci o comportano effetti collaterali che li rendono non più fruibili. I biologici, infatti, per loro natura sono farmaci più complessi, sia in termini di profilo di sicurezza che in termini di gestione pratica (alcuni devono essere somministrati tramite sedute periodiche di infusione endovenosa da fare in ospedale). Per questo sono prescritti solo se la prima terapia non è più adeguata. È indubbio però che i farmaci biologici siano efficaci e i risultati che il paziente ottiene sono ottimi in termini di stato di salute fisica, ma anche mentale. Questi farmaci infatti neutralizzano le citochine, molecole proteiche che causano il processo infiammatorio che caratterizza la malattia, ma intervengono anche sull’umore del paziente che spesso anche a causa dell’effetto diretto di queste sostanze sul sistema nervoso è vittima di depressione. È importante sostiene il dott. Favalli, rivolgersi sin da subito a uno psicologo, meglio se è un professionista specializzato nella cura di pazienti con patologie croniche. Così come è importante che lo psicologo e il reumatologo collaborino nella definizione della terapia perché il trattamento delle patologie reumatologiche è complesso e richiede un approccio multidisciplinare». 

A cura di Lucio Buonanno

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