Condividere spazi, abitudini, esperienze comuni in un ambiente il più possibile familiare, per ricostruire una nuova quotidianità che possa diventare un "ponte" per ritornare alla vita. È questo il principio su cui si basa oggi la riabilitazione psichiatrica.

Non più interventi finalizzati solo al "controllo" della malattia, ma alla riabilitazione del paziente attraverso programmi specifici sanciti dalla legge 180 (che ha portato alla chiusura dei "manicomi").

«La fine dell'istituzione del manicomio ha portato in questi anni a un radicale cambiamento di sguardo, approccio di operatività nei confronti della psicosi e a un rovesciamento del paradigma scientifico: si è passati dalla malattia "intrattabile" a una malattia che è sì patologia, ma curabile. Tutto questo ha determinato l'esigenza di nuovi servizi, tra cui le cosiddette comunità protette» osserva il dottor Massimo Rabboni, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII che oggi ha in carico circa 4.000 pazienti con forme di malattie psichiatriche più o meno gravi.

«Il concetto di comunità in ambito clinico e terapeutico nasce dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando molti ex soldati cominciarono a soffrire di sindrome traumatica da stress. Con la fine del conflitto, infatti, si ritrovarono a dover ricominciare una vita normale. Un percorso difficile e complesso, per affrontare il quale spontaneamente tendevano ad aggregarsi, a trovare conforto stando insieme a chi aveva vissuto le loro stesse esperienze. Nacquero i primi gruppi di auto-aiuto. Per qualcuno però non bastava questa condivisione parziale. "E se vivessero insieme, condividendo la vita per un certo periodo?" ci si chiese». L'esperimento funzionò e così dall'esperienza degli ex soldati si passò ad altri pazienti, persone con psicosi croniche, forme di schizofrenia etc.. «Si iniziò a strutturare comunità caratterizzate da regole di vita comuni ben precise: condivisione, democraticità, tolleranza e imparare dalle esperienze. Il malato psichiatrico, infatti, non ha più abitudini, ha solo fobie, gesti ripetitivi; si trova nella condizione di non essere più in grado di apprendere dall'esperienza, perché l'esperienza quotidiana è per lui un sacrificio costoso». Con la chiusura dei manicomi nel 1978, questi ambienti alternativi diventarono sempre più uno strumento prezioso. «Avevano però un limite: spesso finivano per diventare quasi luoghi in cui vivere, in cui "chiudersi", senza contatti con gli altri e senza la prospettiva di tornare a una vita normale». E così, negli anni Ottanta si arrivò a un nuovo modo di concepire la comunità o residenzialità. «Si capì che la residenzialità, seppur fondamentale, era solo uno degli strumenti terapeutici e in molti casi transitorio. La residenzialità deve avere infatti una finalità riabilitativa, aiutare i pazienti a costruire abitudini di vita quotidiana in vista dell'uscita, con percorsi e accompagnamento diversi a seconda dei bisogni specifici e azioni che possano portarlo dall'"abitare" terapeutico in struttura all'abitare "ordinario" in casa propria. L'obbiettivo finale è il riambientamento nella loro casa e nella società».

La residenzialità oggi si realizza nei centri diurni, strutture semi-residenziali dedicate a pazienti affetti da patologie gravi e complesse, e nelle Comunità, strutture residenziali a intensità riabilitativa diversificata. «Sia nelle strutture residenziali sia in quelle semiresidenziali la nostra équipe multidisciplinare svolge attività cliniche e di riabilitazione, diversificate in base alla gravità e alle tipologie di pazienti, attraverso attività diverse, dall'arteterapia alla musicoterapia, dallo sport al cucito, dalle gite al canto fino all'orientamento e supporto nel percorso lavorativo protetto e non, volto al recupero delle capacità lavorative, grazie a contatti con cooperative, SIL (Servizio Inserimento Lavorativo) e altri servizi coinvolti, tra cui la Provincia e le diverse cooperative del terzo settore che ci aiutano in questo percorso» continua il dottor Rabboni. Oltre alle comunità semiresidenziali e residenziali, il Dipartimento di Salute Mentale offre anche altre forme di assistenza e cura delle malattie psichiatriche. «In regime di degenza, attraverso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), curiamo e assistiamo pazienti affetti da disturbi mentali in fase acuta con l'obbiettivo di attuare un tempestivo intervento di osservazione clinica, assistenza, cura e riabilitazione. L'attività passa attraverso la psicofarmacologia, visite e colloqui con lo psichiatra, risocializzazione e reinserimento finalizzato al rientro al domicilio o in strutture specializzate. In regime ambulatoriale invece, nei CPS (Centri Psico Sociali) coordiniamo gli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale, mentre presso l'Ambulatorio per lo studio e la cura dei disturbi dell'umore e dell'ansia "Varenna" ci occupiamo di diagnosi e cura dei disturbi d'ansia e depressione attraverso prescrizioni psicofarmacologiche e interventi psicoterapeutici, individuali e di gruppo, in relazione alle specifiche necessità dei pazienti» conclude il dottor Rabboni.

a cura di ELENA BUONANNO