«Il mio sogno si è fermato a metà dell’arrampicata. Avevo preparato per mesi la mia sfida a El Capitan, un monolite di granito (2300 metri di quota con 1000 metri di sviluppo) nel parco nazionale Yosemite in California, con pareti verticali che gli alpinisti di tutto il mondo tentano almeno una volta nella loro vita. E invece a metà io e i miei compagni siamo stati costretti a tornare indietro. Sono comunque soddisfatta di aver provato e di aver dimostrato a me stessa di potercela fare anche se ho la colonna vertebrale spezzata, non sento più le gambe e sono costretta a vivere su una sedia a rotelle». La storia di Eleonora Delnevo, 35 anni, per tutti Lola, consulente bergamasca per l’ambiente e la sicurezza, ha dell’incredibile, anche se lei tenta di minimizzare. Per lei contano i veri valori della vita come ha scritto sul suo diario di Facebook riportando una frase tratta dal libro “La montagna dentro” di Hervé Barmasse: “A volte penso che in questa nostra società, costruita sui numeri, dove l’uomo sembrerebbe avere come unico fine quello di prevalere sugli altri ed essere più potente, più ricco, più famoso, migliore ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, non ci sia più spazio per i sentimenti e le emozioni. Forse per allontanarmi da tutto questo, ho scelto di arrampicare e di ricercare la mia felicità nella natura, in montagna e vicino a persone genuine e semplici”. E sono state proprio tante persone genuine e semplici come Diego Pezzoli, suo compagno di tante arrampicate, della sorella, dei familiari, di amici e anche di sconosciuti che hanno partecipato alla raccolta fondi per pagare a Eleonora le spese sanitarie durante il ricovero e la riabilitazione.
Due anni fa, a marzo, era in un letto di ospedale dopo una terribile caduta mentre scalava con due suoi amici, una cascata ghiacciata in Trentino, in Val Daone. «Mentre salivamo un blocco di roccia proprio sopra di noi si è staccato dalla parete, causando un cedimento della linea, e siamo precipitati fino al canale sottostante e mi sono provocata una lesione spinale completa» ci racconta. « In elicottero ci hanno trasportati all’ospedale di Trento. Non capivo nulla anche perché ero sedata. Ma appena mi sono resa conto della mia situazione, ho reagito. Da quel momento ho pensato soltanto a riprendermi. Anche se capivo che dovevo ricominciare da zero, dovevo organizzarmi e che la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Ma poi con il passare dei mesi mi sono accorta che per me non è cambiato molto. Continuo a vivere da sola ad Arcene, riesco a lavorare con entusiasmo e con impegno. Certamente le difficoltà sono aumentate, ma mi ha aiutato anche nei momenti peggiori il fatto di riprendere il mio lavoro, le mie consulenze con i miei clienti che mi sono stati tutti vicino e mi hanno stimolato ad andare avanti. Ma anche in sedia a rotelle ho continuato a fare sport. Già al centro di riabilitazione del Papa Giovanni XXIII a Mozzo ho cominciato con il tennis e la pallacanestro. Una volta dimessa dall’ospedale mi sono allenata per qualche mese con la squadra di basket della SBS (Special Bergamo Sport) che gioca in serie A, ma poi ho dovuto smettere perché avevo ricominciato a lavorare e la sera ero distrutta. Poi ho scoperto il kayak. Non ho mai pensato però di mollare lo sport e il sogno di tornare ad arrampicarmi, di risalire in vetta. La mia vita è questa con obiettivi e progetti da realizzare. È il mio modo di tirarmi fuori dalla buca».
Come la scalata a El Capitan. «Ero ancora in ospedale quando Diego Pezzoli che veniva a trovarmi spesso mi ha detto: “Non pensare che non potrai fare più niente. Ho già un’idea per te”. E appena sono uscita me l’ha proposta: scalare El Capitan». E allora via: ore di palestra, di fisioterapia per fortificare la muscolatura delle braccia, perché per arrampicarsi, non potendo più usare i piedi, ogni sforzo lo si deve fare solo con le braccia e con altri accorgimenti tecnici. E così ha provato mille volte l’imbrago che ha poi usato in California che consente di stare seduti e di scaricare il peso delle gambe, il portaledge, una tenda smontabile per i bivacchi notturni dove si sta sospesi in parete, le carrucole autobloccanti. Con lei il suo amico Pezzoli, Franco Perlotto, il primo italiano che ha scalato El Capitan su una delle vie più conosciute dal terrificante nome Lurking fear (paura in agguato) e Angelo Angelilli, un altro italiano trapiantato in California esperto di El Capitan. Doveva esserci anche l’inglese Andy Kirkpatrick un vero esperto del massiccio californiano che ha scalato una trentina di volte. «Mi aveva contattato via Faceook. Mi aveva scritto: “Ho saputo che vuoi andare sul Capitan. Beh, io un pochino lo conosco, ti va se vengo con voi?” E invece non ha potuto raggiungerci perché in ritardo impegnato in un’altra scalata. Così siamo partiti in tre, io, Diego e Perlotto. Temevo di soffrire durante il viaggio, invece è andato tutto bene. Ma che emozione poi trovarsi di fronte a quella stupenda, affascinante montagna di roccia. L’ho guardata per un po’, seduta sulla mia carrozzina. E poi una bracciata alla volta su, su tentando di arrivare in cima. Purtroppo a metà ci sono stati dei problemi e abbiamo dovuto fermarci. Ma forse un giorno ci riproverò. Adesso voglio realizzare un altro sogno. Andare con due mie amiche in Norvegia per navigare con il kayak». Un’altra sfida che Eleonora non teme e che comunque le dà la carica e le fa dimenticare di dover vivere su una sedia a rotelle. Anche se lei, che ha un carattere di ferro e la battuta pronta, riesce a scherzare sulla sua disabilità sa che non è sempre facile. Per questo a chi si trova in condizioni disagiate non si stanca di ripetere il suo motto: “non mollare mai”. E la sua determinazione è stata premiata con il "Bonatti Day" il 21 gennaio scorso in occasione dell'Orobie Film Festival dedicato alla montagna.