Neurochirurgia? Meglio da svegli in caso di tumore al cervello vicino alle aree del linguaggio.
Si chiama awake surgery, ossia chirurgia a paziente sveglio. È una tecnica difficile e che certo fa un po’ impressione, ma d’importanza cruciale in alcuni casi. In particolare viene utilizzata in neurochirurgia per l’asportazione di tumori che si trovano molto vicino ad aree “eloquenti” del cervello, ovvero deputate al controllo di importanti funzioni come il movimento volontario e la produzione/comprensione del linguaggio. Obbiettivo: massimizzare l’asportazione di una neoplasia cerebrale senza lasciare deficit neurologici al paziente.

 

Mentre il chirurgo opera, è il paziente che lo “guida”
Questa tecnica si affaccia nella pratica neurochirurgica verso la fine degli anni Ottanta come soluzione estrema per l’epilessia intrattabile. Grazie ai progressi in campo medico, tecnologico e chirurgico negli ultimi dieci anni ha trovato applicazione anche nel campo della neuro-oncologia e in particolare nella chirurgia dei tumori cerebrali primitivi (originati nel cervello stesso e quindi non metastasi di altri tumori). L’aspetto innovativo è rappresentato dal fatto che durante l’intervento il paziente (inizialmente addormentato e intubato come negli interventi “classici”), dopo l’esecuzione della craniotomia (apertura del cranio) e l’incisione della dura madre (la meninge o membrana più esterna che avvolge l’encefalo), viene svegliato e invitato a collaborare attraverso la produzione di parole, l’esecuzione di movimenti fini, l’attribuzione di nomi a oggetti di uso comune visualizzati nello schermo di un computer. In questa delicata fase è affiancato costantemente dal neuropsicologo, che oltre a tranquillizzarlo cerca di fargli eseguire i compiti sopra citati che, in casi particolari, soprattutto in relazione all’attività professionale del paziente, possono diventare molto complessi, come ad esempio suonare uno strumento, cantare, esprimersi in diverse lingue. Nello stesso tempo, con il paziente sveglio, il neurochirurgo esegue una mappatura della corteccia cerebrale attraverso la sua stimolazione con microelettrodi con correnti a bassissimo voltaggio. L’obbiettivo è individuare le aree cerebrali funzionalmente importanti, localizzarle in relazione alla posizione del tumore e valutare quindi fino a che punto può essere spinta l’asportazione chirurgica senza provocare danni neurologici. Quando infatti il neurochirurgo stimola aree critiche cerebrali, la risposta del paziente non sarà più fluida: ad esempio, nell’asportazione di una neoplasia localizzata molto vicino all’area di produzione del linguaggio (area corticale di Broca), quando la stimolazione elettrica sarà in prossimità di quest’area, il paziente inizierà a mostrare difficoltà nella denominazione degli oggetti, a invertire, omettere o cambiare sillabe, a pronunciare nomi dal suono simile (in termini medici, parafasie semantiche); stimolando ulteriormente, si può arrivare al cosiddetto speech arrest ovvero all’arresto della produzione del linguaggio. Attraverso questo “mappaggio” cerebrale il neurochirurgo definisce i limiti entro i quali deve rimanere la rimozione chirurgica. Il neurofisiologo, anche lui presente in sala operatoria, ha il compito di registrare e interpretare istante per istante il tracciato elettroencefalografico in modo da controllare eventuali alterazioni elettriche della corteccia cerebrale che potrebbero essere il segno premonitore di insorgenza di crisi epilettiche.

L’importanza di un’équipe multidisciplinare
In questo scenario risulta fondamentale il contributo delle diverse figure professionali coinvolte, come in lavoro di squadra in cui ogni singolo professionista assume un ruolo insostituibile e determinante per il raggiungimento degli obbiettivi. È infatti necessario un coordinamento perfetto tra neurochirurgo, neuroanestesista, neuropsicologo, neurofisiologo e personale infermieristico di sala operatoria. Il vero protagonista, però, è indubbiamente il paziente, che assume, a differenza dei classici interventi eseguiti in anestesia generale, un ruolo attivo sia durante l’atto chirurgico sia nelle fasi pre e post-operatorie. Il paziente per essere dichiarato candidabile a questa procedura deve passare attraverso una serie di valutazioni neuropsicologiche in cui è fondamentale che mostri estrema motivazione nel combattere la malattia e capacità di resistere a eventi stressanti. La awake surgery è un’esperienza coinvolgente ed emotivamente particolare sia per il neurochirurgo sia per il paziente poiché entrambi cooperano per il raggiungimento del medesimo obbiettivo: Il paziente chiede aiuto al neurochirurgo per l’asportazione della neoplasia, il neurochirurgo chiede aiuto al paziente affinché con la sua collaborazione attiva in sala operatoria questa possa essere eseguita nel miglior modo possibile.

I vantaggi più sicurezza e meno riabilitazione post intervento
I vantaggi di essere operati da svegli sono scientificamente provati: nessun test diagnostico può stabilire con precisione la funzione delle zone cerebrali su cui s’interviene, per questo se il paziente è vigile può contribuire a “guidare la mano del chirurgo” aiutandolo a eliminare il tumore senza toccare l’area del cervello predisposta a governare il linguaggio. Inoltre, minimizzando i deficit neurologici post-operatori, permette di ridurre al minimo la necessità di una riabilitazione neurologica, consentendo al paziente di rientrare più velocemente alla vita normale.

A cura del dott. Orazio Santonocito
Direttore UOC Neurochirurgia Aziendale - Azienda Usl Nordovest Toscana
Membro del Comitato Scientifico
di Bergamo Salute