Curare le ferite dell’anima trasformandole in qualcosa di unico e prezioso. Già perché dopo il dolore c’è sempre un momento in cui si deve “rimettere insieme i cocci”. È questo l’insegnamento del Kintsugi (da, kin, oro e tsugi, riparare), l’arte giapponese nata secoli fa per riparare le tazze da tè che trasforma gli oggetti danneggiati e rotti in opere d’arte. Una metafora di un atteggiamento mentale che dovremmo imparare per vivere meglio e più in pace con noi stessi e con gli altri. Per i giapponesi, ogni “ferita”, fisica o emotiva, è un nuovo inizio e le cicatrici che ne derivano non vanno nascoste, ma esibite con orgoglio. Come ci spiega la dottoressa Francesca Calioni Bembo, psicologa e psicoterapeuta.

Dottoressa Calioni Bembo, ci racconta che cosa è il Kintsugi?
È un’antica arte giapponese nata apparentemente per caso all’incirca nel XIV secolo quando l’ottavo Shogun Yoshimasa, non sapendo a chi rivolgersi per riparare la propria tazza preferita per la cerimonia del tè andata in pezzi, la spedì in Cina, purtroppo senza esito. Ritornata in patria, abili artigiani giapponesi decisero di trasformare allora la tazza in oggetto prezioso riempiendone le crepe con resina laccata; ricoprirono le crepe con polvere d’oro zecchino. Gesti sapienti, misurati e pazienti, per restituire l’oggetto al suo ciclo vitale, mettendone in risalto, dopo averle impreziosite, proprio le sue fratture. Storia o leggenda, l’origine del Kintsugi racchiude in sé il pensiero della spiritualità shintoista che anche gli oggetti siano dotati di una propria anima e non vadano gettati, ma ricomposti e restituiti per continuare a essere usati per la loro funzione. Una filosofia di rispetto e grande creatività, che vede nella possibilità di trasformazione un ciclo vitale. Nulla si getta di ciò che amiamo, per essere sostituito da qualcosa di nuovo, integro e perfetto. La perfezione è un concetto che non esiste nella filosofia Zen e gli stessi oggetti interi convivono con proprie intrinseche differenze di fabbricazione, non sono mai identici, pur essendo uguali. L’amore per ciò che è irregolare denota un anelito verso la libertà, mentre ciò che è perfetto è statico, codificato e freddo, poiché si rivela a una prima occhiata e non lascia spazio per evocare intime differenze.

Come scrive lo psicologo Tomàs Navarro, autore di “Kintsukuroi - L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima (Giunti Editore), “non tutte le avversità vengono per nuocere. È vero, siete stati feriti (…). Ma ciò che conta è che siete stati capaci di andare avanti, di affrontare il dolore e ricostruire la vostra vita. C’è voluto impegno, lo so, e di certo la ferita ha lasciato delle conseguenze, ma non tutte sono negative. Ad esempio il dolore vi ha reso più sensibili e più empatici verso chi, come voi, è stato ferito. Avete molto da insegnare a queste persone. Siete rinati dalle vostre ceneri e le vostre cicatrici sono la migliore delle testimonianze” (…) non vergognatevi delle cicatrici, non nascondetele. Anzi, abbellitele, perché sono la più grande testimonianza della vostra forza.

Che cosa ci può insegnare oggi lo Kintsugi?
Nella metafora del Kintsugi, quella di “abbracciare un danno”, trasformare un oggetto impreziosito da cicatrici dorate in uno unico e diverso ritroviamo un modo simile di guardare all’essere umano, alle sue ferite e ai suoi traumi. Nessuno è perfetto, ma è importante invece come riusciamo a guardare noi stessi e gli altri e che cosa possiamo fare di questo sguardo. La metafora del Kintsugi sembrerebbe concepire l’oggetto, in questo caso la persona, come passiva e infranta, ma così non è. Al contrario, riconoscere nelle proprie ferite, nel proprio dolore e nel proprio frangersi, una mancanza, non celandola né vergognandosene, ma sentire il bisogno di attenzione e di cura, è un pensiero estremamente attivo e vitale, che può aprire alla trasformazione di sé. Sentirsi ferito, danneggiato, sofferente o mancante, incapace di mantenere la propria personale “interezza” è paradossalmente un atto di integrità, un primo modo dire IO. Tutto ciò contrasta anche con le richieste pressanti della società contemporanea. Lo sguardo sociale tende oggi più che mai a equiparare la bellezza a perfezione estetica, la soddisfazione lavorativa a successo, la vittoria a sopraffazione di chi non è perfetto o vincente. È difficile resistere a tale pressione, è difficile sentire di poter fare di una propria debolezza, di una propria ferita, il punto di partenza per un cammino di trasformazione. Prevale l’imperativo ideale a mostrarsi perfetti, forti, performanti, l’urgenza di aggirare il tempo e negarne il valore, affermare solo l’adesso-e-subito. Quella tazza infranta del Kintsugi subisce la pressione di essere perfetta, di vedere negata la propria specifica condizione, di non poterne “abbracciare il danno”. In questo modo ciascuno vuole essere come l’altro, percepito come modello di integrità perfetta. Come nel Kintsugi, invece, iniziare un cammino di trasformazione si offre come arte, come atto per accogliere la propria (e l’altrui) imperfezione, debolezza, ferita, trauma, cioè le proprie crepe interiori procurate dalla vita, per restituirci ad essa imperfetti e più consapevoli, in continua aperta trasformazione di sé nel ciclo vitale.

Il Kintsugi offre una chiave di lettura diversa del dolore: imparando a rispettare la propria fragilità e cicatrici si impara a ricomporre le ferite dell’anima e a diventare persone più forti. La delicatezza e pazienza che il cambiamento Kintsugi- come una psicoterapia-comportano, richiedono una trasformazione lenta e profonda, che porta a riassemblare i pezzi sparsi di sé e della propria vita in modo creativo. E così porta anche a liberare la mente dalla ricerca della perfezione, che non esiste. Anzi, proprio dalle sconfitte e dalle imperfezioni è possibile percepire autentica bellezza, nello stesso modo in cui l’oro che impreziosisce le fratture trasforma poco per volta il vaso in un oggetto unico e differente da ciò che era.

A cura di Giulia Sammarco
con la collaborazione della dott.ssa Francesca Calioni Bembo
Psicologa e Psicoterapeuta SIPP A Bergamo