Dolore diffuso a tutta la spalla, che sembra peggiorare di notte e disturba il sonno, rigidità (non conseguente a immobilizzazione dell’arto) con riduzione della capacità di movimento. Sono questi i primi sintomi della capsulite restrittiva, chiamata anche “capsulite adesiva” o “spalla congelata”, patologia ad esordio talvolta subdolo e progressivo. Riconoscerla precocemente è fondamentale per accelerare i tempi di guarigione.
Quando l’articolazione si “congela”
La capsulite restrittiva è una patologia a carico della capsula articolare, cioè quel “manicotto” che unisce le due componenti dell’articolazione della spalla: la parte finale dell’omero (cosiddetta testa) e una protuberanza della scapola chiamata glenoide. In seguito a un processo infiammatorio del tessuto che forma la capsula articolare (capsul-ite appunto, dove ite sta per infiammazione), questa si restringe causando una limitazione del movimento. Il termine capsulite adesiva deriva da una letterale traduzione dall’inglese, ma in realtà non vi è nulla di “adesivo”; altri termini comunemente usati per definire questa patologia sono “spalla congelata”, il suo corrispettivo inglese “frozen shoulder”, “spalla rigida idiopatica”. Questo “congelamento” dell’articolazione riduce notevolmente l’arco di movimento e può causare dolore quando si cerca di muoversi anche per semplici attività quotidiane come allungarsi per prendere un oggetto o spazzolarsi i capelli.
Le tre fasi della malattia
Dopo la fase iniziale e più dolorosa (detta di raffreddamento) che può durare settimane, la capsulite evolve in una seconda fase (il vero e proprio congelamento) caratterizzata da diminuzione del dolore a riposo, ma presenza di un fastidio continuo con rigidità dell’articolazione e limitazione del movimento, per poi passare alla terza fase o “fase del disgelo” in cui si si assiste a un seppur lento ma progressivo recupero di mobilità articolare.
I più a rischio: le donne tra i 40 e i 50 anni
Ancora non sono chiare le cause che possono favorire la comparsa di questa patologia. Quello che si è visto è che le donne tra i 40 e i 50 anni sembrano essere maggiormente predisposte a sviluppare forme di capsulite restrittiva. Anche la presenza di patologie come il diabete e le cardiopatie o l’assunzione prolungata di alcune categorie di farmaci come gli antiepilettici sono frequentemente associate a questa patologia, che comunque può manifestarsi in ogni persona, uomo o donna, senza particolari fattori “di rischio” o traumi pregressi. Curiosamente si è notata un’aumentata incidenza, per fattori ancora non noti, di questa problematica dopo la prima ondata di Sars-Covid.
I sintomi? A volte possono trarre in inganno
I sintomi dolorosi della spalla sono spesso confusi con altre patologie come la tendinopatia calcifica, la rottura della cuffia dei rotatori, l’artrite o la tendinite del capo lungo del bicipite. Nonostante queste patologie in alcuni casi possano evolvere verso una capsulite adesiva, ciò non è assolutamente la regola. Di fronte a una limitazione dell’arco di movimento, soprattutto in rotazione e flessione, esami strumentali come una radiografia, la Risonanza Magnetica Nucleare e l’esame clinico consentono di escludere altre possibili patologie e confermare la diagnosi.
Terapie “su misura” a seconda della gravità
La terapia della capsulite restrittiva dipende dal livello di gravità. Spesso, nelle fasi iniziali, farmaci antiinfiammatori sono utili per ridurre la reazione infiammatoria e conseguentemente diminuire il dolore. Terapie fisiche come la tecarterapia o onde d’urto possono giovare. Un terapista della riabilitazione esperto è di aiuto per effettuare una mobilizzazione attiva-assistita o passiva che deve essere eseguita molto dolcemente, senza mai forzare, meglio se in una piscina riabilitativa con acqua calda. In associazione alle terapie riabilitative, è molto utile anche eseguire un programma d’esercizi domiciliari. In alcuni casi, iniezioni intrarticolari con acido ialuronico e/o farmaci cortisonici possono rappresentare un valido trattamento. La terapia chirurgica, indicata soprattutto nei casi di severa limitazione e in pazienti con fattori di rischio (come ad esempio il diabete), è rappresentata dalla capsulolisi in artroscopia. Si tratta di un intervento che viene eseguito generalmente in regime di day hospital, attraverso il quale, con tecnica mini-invasiva, si tagliano le porzioni della capsula articolare infiammata. Un altro approccio, ancora diffuso ma meno consigliabile per le possibili complicanze, è la mobilizzazione dell’articolazione in narcosi, che consiste nel forzare l’articolazione del paziente addormentato in tutte le direzioni. In ogni caso, sia dopo la manipolazione in narcosi sia dopo l’artroscopia, il paziente deve continuare la terapia riabilitativa di mobilizzazione e gli esercizi domiciliari. La capsulite restrittiva si risolve con le terapie descritte e non evolve in artrosi o in danni alla cuffia dei rotatori. È comunque importante che i pazienti comprendano che i tempi di recupero sono molto lunghi, parecchi mesi (il paziente deve essere “paziente”) e che in alcuni casi la patologia può ripresentarsi.
A cura del dott. Enzo Vinci
Specialista in Ortopedia e Traumatologia
Direttore dell’Unità Funzionale di Chirurgia Spalla e Gomito
della Casa di cura San Francesco di Bergamo