Settimana corta sì o no? È questo uno degli argomenti più dibattuti negli ultimi tempi in tema di equilibrio tra vita lavorativa e personale. Secondo un recente studio dell’Università dell’Australia Meridionale, pubblicato sull’International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity, ad esempio, un weekend più lungo di tre giorni fa bene alla salute, aumentando il livello di attività fisica, diminuendo la sedentarietà e migliorando la qualità del sonno, con effetti che si protraggono anche per due settimane dopo il periodo di riposo. Ma è davvero così? Ne abbiamo parlato con Alessandro Fortis, formatore e coach.

Dottor Fortis, la settimana breve è una novità?

Non proprio… nei Paesi nordici sono circa dieci anni che si sperimenta con discreto successo questo modello. In Svezia, per esempio, si lavora una media di sei ore al giorno. Ma anche in Paesi più vicini a noi, come la Francia, l’orario lavorativo medio si aggira sulle 35 ore settimanali.

Allora perché è tornata sotto i riflettori proprio ora?

A seguito della pandemia da Covid-19 sempre più persone hanno deciso di dare maggior importanza alla propria salute, al tempo libero e a quello dedicato alla propria famiglia. È così che aziende poco avvezze a questi valori hanno visto negli ultimi anni sempre più persone lasciare il lavoro (Great Resignation) o hanno sperimentato che non sostenere i propri lavoratori nella ricerca del proprio benessere significa spesso muoverli nella direzione di fare il meno possibile, adempiendo solo a quello che è strettamente e necessariamente richiesto (Quite Quitting).

Sono stati fatti degli esperimenti per capire se e quanto convenga adottare la settimana breve?

Già nel 2019 Microsoft ha sperimentato la settimana corta nella sua sede di Tokyo. I risultati? La produttività è aumentata del 39%, le riunioni si sono ridotte e il consumo elettrico si è abbattuto del 23%. In Inghilterra sono state coinvolte ben 61 aziende e i risultati osservati sono simili: maggior benessere, aumento dei ricavi e diminuzione di stress e turnover.

Quindi non solo benefici strettamente economici, ma anche a livello di salute…

Proprio così. Sembrerebbe che questo modello organizzativo stimoli la produttività dei singoli e dei team. È importante però sottolineare che tale evidenza è prettamente collegata al lavoro cognitivo e creativo (quello impiegatizio per così dire), ma non necessariamente a quello da catena produttiva. Inoltre le persone avrebbero modo di rilassarsi maggiormente, ricaricando le batterie e vivendo un’esistenza dove il rapporto fra lavoro e vita privata si rende più equilibrato, ovvero producendo quello che nel gergo anglosassone chiamano un work life balance più sostenibile. Ciò sembra da un lato diminuire la quantità di distress (lo stress nocivo), dall’altro la possibilità di burnout (esaurimento psico-fisico causato da lavoro). Ma non è tutto oro quello che luccica…

Un’idea con radici lontane
“Il lavoro si espande sino a occupare tutto il tempo a disposizione per completarlo”: è questa la famosa massima che riassume la legge di Parkinson, storico navale britannico della seconda metà del Novecento. Secondo la sua teoria, se ci sarà data una settimana per completare un progetto, con tutta una serie di mansioni annesse, quella ci metteremo. Se però, ipoteticamente, ci assegnassero un giorno in meno per farlo, probabilmente lo faremmo in quello spazio temporale assegnato. Nonostante siano passati più di cinquant’anni dalla definizione di questa legge, non solo sembra avere ancora valore, ma pare essere il fondamento della settimana lavorativa da quattro giorni.

Ci sono quindi anche degli aspetti negativi?

Forse non sono immediatamente osservabili, ma ci sono. Anzitutto se il modello aziendale non decidesse di ridistribuire il lavoro con più risorse, o di rivedere obiettivi e piani organizzativi, a parità di traguardi da raggiungere il rischio potrebbe essere quello di lavorare un giorno in meno a dispetto però di un carico di ore lavorative quotidiane maggiore. Questo potrebbe portare alcune persone, paradossalmente, a sentirsi più stressate nel concentrare e massimizzare la produttività in pochi giorni, ritrovandosi a fine giornata più stanche e frustrate di prima. In secondo luogo si pone il problema degli stipendi: una ricerca mostra che il 66% delle persone intervistate sarebbe interessato alla settimana corta solo a parità di salario, mentre solo il 10% accetterebbe a fronte di un taglio allo stipendio. Il 18% sarebbe invece disposto a lavorare un’ora in più al giorno.

Quindi la situazione ha molte sfaccettature…

Esatto. Facciamo un esempio: se in un’azienda è presente un “clima tossico”, siamo davvero certi che ridurre la settimana di un giorno basterebbe a risollevare gli animi? La verità è che quando si parla di lavoro in remoto, così come di settimana corta, lo si dovrebbe fare sempre tenendo a mente il cappello di tutti questi ragionamenti, ovvero quello che definiamo smart working. Con questo termine dovremmo intendere tutti quegli aspetti, messi insieme, che pur utili all’azienda sono volti a migliorare la vita professionale, e non, di un individuo. Ogni intervento ha perciò senso solo se attivato in ottica sistemica, dove ciascun elemento non solo è necessario, ma diviene condizione per rinforzare o inficiare tutti gli altri. 

A cura di Viola Compostella
con la collaborazione del dott. Alessandro Fortis Formatore soft skill e coach
Bergamo