Colpisce una persona su 20, il 5% della popolazione, tra i 30 e i 50 anni. Come riconoscerla e curarla?
La tiroidite di Hashimoto, o tiroidite cronica autoimmune, è tra le patologie tiroidee più diffuse e che colpisce 1 persona su 20, il 5% della popolazione, in particolare nel sesso femminile tra i 30 e i 50 anni. Si tratta di una malattia che nasce da un’errata risposta del sistema immunitario con produzione di anticorpi, che normalmente sono rivolti contro virus e batteri, ma in questo caso attaccano il tessuto tiroideo; questo innesca una reazione infiammatoria che altera prima la struttura e poi la funzione della ghiandola. È inoltre una patologia organo-specifica perché non può
danneggiare altri tessuti: gli anticorpi prodotti, infatti, si legano a particolari proteine presenti solo nella tiroide. Infine, si definisce cronica perché ad oggi non esiste la possibilità né di bloccare questa risposta immunitaria, né di riparare il tessuto tiroideo danneggiato.

I sintomi e le cause

Nonostante si tratti di un processo infiammatorio, fino a che la tiroide riesce a produrre ormoni in quantità adeguata, la malattia decorre in modo asintomatico; rappresenta però la principale causa di ridotta produzione di ormoni tiroidei o ipotiroidismo. Le cause della tiroidite di Hashimoto, invece, non sono note. Si tratta di una malattia familiare non ereditaria (quello che si trasmette è solo la predisposizione alla malattia), ma tra gli eventi ritenuti responsabili della sua comparsa ci sono infezioni virali, carenze o eccesso di iodio (spesso secondario a farmaci) o irradiazioni del collo. Il riscontro è spesso casuale, in occasione di una visita medica in cui si riscontra alla palpazione del collo la tiroide ingrandita, disomogenea al tatto e di consistenza aumentata, oppure in occasione di indagini richieste per familiarità per tireopatie (i.e. patologie della ghiandola tiroidea) o da donne fertili con desiderio di gravidanza. È più frequente che si manifesti in persone già affette da altre malattie autoimmuni quali celiachia, vitiligine, psoriasi o artrite reumatoide.

La diagnosi

La diagnosi della tiroidite di Hashimoto si basa sulla presenza di autoanticorpi nel sangue, principalmente anti-tireoperossidasi (AbTPO), con una minoranza che presenta anche anticorpi anti-tireoglobulina (AbTg) o anti-recettore del TSH (TRAb). Il valore di questi anticorpi non riflette la gravità della malattia, perciò non richiede monitoraggio continuo. Attraverso un’ecografia tiroidea si può valutare il danno al tessuto ghiandolare e la presenza di noduli, ma non è necessaria annualmente. La frequenza viene determinata dallo specialista e dipende da vari fattori, inclusi l’età e il rischio di sviluppare noduli. Il danno tissutale non sempre correla con la ridotta produzione di ormoni tiroidei, a evidenza che la tiroidite di Hashimoto non richiede monitoraggio ecografico regolare. Quando il danno è significativo, si osserva un aumento del TSH e una diminuzione degli ormoni tiroidei FT4 e FT3. In questa fase possono comparire disturbi quali stanchezza, sonnolenza, difficoltà di concentrazione, dolori muscolari, freddolosità, difficoltà nel mantenimento del peso corporeo, stitichezza e alterazioni del ciclo mestruale. È importante notare che questi sintomi sono dovuti alla carenza di ormoni tiroidei nel sangue, non solo alla tiroidite. Ogni paziente può manifestare un quadro diverso di ipotiroidismo in termini di sintomi e gravità.

Il trattamento e la cura

Ad oggi non è disponibile un trattamento né per interrompere l’errata risposta immunitaria, né per riparare la tiroide danneggiata. La terapia viene impostata in caso di ipotiroidismo ed è rappresentata dall’ormone tiroideo levotiroxina, la cui dose e formulazione (in compresse o liquido) viene stabilità in base alla severità dell’ipotiroidismo, al peso ed età del paziente, a eventuali altre patologie o situazioni concomitanti (es. il desiderio di gravidanza). Ne deriva che non tutti i pazienti con tiroidite di Hashimoto fanno terapia e che, soprattutto, ognuno assumerà il dosaggio di farmaco adatto alla sua situazione.

I benefici di una sana alimentazione

Non esistono studi scientifici sufficientemente validi che consigliano di escludere o integrare alla dieta alcuni nutrienti per migliorare il decorso della malattia. Basta consigliare una dieta bilanciata povera di cibi raffinati e processati, simile alla dieta mediterranea, che garantisca un adeguato apporto di iodio, selenio e vitamina D. Questo tipo di dieta ha un effetto positivo anche sul microbiota intestinale, l’insieme dei batteri che popolano il nostro intestino e intervengono nella stabilità del nostro sistema immunitario. Mantenere in buona salute il nostro microbiota intestinale sin dalla giovane età, secondo alcuni studi, potrebbe avere un ruolo protettivo sull’esordio della tiroidite e di altre malattie autoimmuni. Concludendo, è indicato quindi sottoporre ad esami per la ricerca di tiroidite e/o ipotiroidismo coloro che hanno in famiglia casi di patologie tiroidee o malattie autoimmuni o donne in età fertile che desiderano una gravidanza. Una particolare attenzione va riservata alle donne che devono affrontare un percorso di fecondazione medicalmente assistita in quanto la stimolazione ormonale prevista per indurre l’ovulazione induce un rialzo dei valori di TSH e può quindi rendere manifeste forme di ipotiroidismo più lievi.

A cura della dott.ssa Danila Covelli
Medico chirurgo, specialista in endocrinologia e malattie del ricambio
CasaMedica - Centro Polispecialistico - Medicina Integrata, Bergamo