Ci sono medici e infermieri che suonano Rolling Stones e Who per i pazienti: è il gruppo Aut Min Rock, formato da professionisti dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. Il leader è Michele Colledan, luminare dei trapianti.
Una delle rock band più in vista della provincia non è composta da musicisti di professione, ma da professionisti della sanità (medici e infermieri dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo). Parliamo di Aut Min Rock, band non certo nota per l’originalità delle canzoni, né per il numero di ascolti su Spotify.

A fondare il gruppo, quindici anni fa, un luminare dei trapianti di livello internazionale, Michele Colledan, da poco in pensione. Quando faceva il chirurgo ascoltava musica anche in sala operatoria, dagli Who, i suoi preferiti, ai Rolling Stones e ai Led Zeppelin. «Non è una cosa così strana - ha raccontato Colledan - molti colleghi ascoltano musica, e ci sono anche illustrissimi colleghi musicisti veri. Alcuni amano il rock e sono contenti, altri non lo amano e vorrebbero toglierlo. Si crea comunque un’armonia per tutta l’equipe e aiuta a sdrammatizzare». Nel repertorio degli Aut Min Rock, questo il nome della band, brani anni ‘60, ’70 e ‘80. Come spiega il chirurgo Bernardo Righi, batterista del gruppo, il nome «nasce da una vecchia dizione che compariva negli spot pubblicitari, autorizzazione ministeriale richiesta, sui farmaci, quindi è stata modificata, da lì Aut Min Rock».

L’ascolto di rock in sala operatoria fa anche il paio con la necessità di rimanere vigili, di avere energia. «Il gruppo chirurgico che faceva capo a me – spiega Colledan – si occupava di trapianti di polmone, intestini, pancreas… spesso si opera di notte, il trapianto è fatto anche di prelievo, e almeno una delle due cose si fa di notte. Cosa penso quando inizio un’operazione? Che vada bene ovviamente. È una terapia incredibile e rischiosa, ma si applica quando non esistono alternative». Delle gioie provate per i trapianti andati bene annota: «È impressionante quando l’organo inizia di nuovo a colorarsi e a circolare e a dare segni di funzioni. È una cosa che emoziona chiunque in una sala operatoria e anche me dopo tantissimi anni. Il trapianto è una forma di cura che dura tutta la vita e per quelli più complessi c’è tutto l’ospedale che gira attorno a un trapianto. Paura che qualcosa non vada bene? Non paura, ma preoccupazione, e purtroppo succede che non vada bene». È stato anche insignito del titolo di Cavaliere dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Colledan, insieme all’ospedale di Bergamo tutto. «È stata una sorpresa, l’ho appreso prima dalla stampa che in via ufficiale, è stato un onore e bisogna essere all’altezza di questa onorificenza nella vita quotidiana».

Il 29 luglio dello scorso anno, tre mesi prima di andare in pensione, Colledan ha potuto festeggiare il trapianto di fegato numero 2.000 della storia complessiva dell’ospedale di Bergamo. A ricevere l’organo, una donna bergamasca di 55 anni. «Il traguardo dei 2000 trapianti di fegato è stato abbondantemente superato da altri centri, che però avevano iniziato oltre 10 anni prima di noi – ha detto nell’occasione il chirurgo -. La numerosità della casistica è l’espressione di un atteggiamento sempre dinamico del nostro gruppo chirurgico e di quelli anestesiologico e infermieristico ma anche delle componenti mediche specifiche di organo. Più in generale, esprime la grande efficienza di tutto l’ospedale, dal laboratorio analisi, alla farmacia, al centro trasfusionale, solo per citarne alcuni, ma anche della componente amministrativa. Come in tutte le attività umane, anche per la chirurgia è ben dimostrato il rapporto diretto tra volume di attività e qualità dei risultati. Un’altra tappa di questa grande avventura iniziata nel 1997 a Bergamo dal nostro gruppo, allora diretto da Bruno Gridelli. Credo di essere stato molto fortunato, professionalmente a parteciparvi fin dall’inizio».

In gioventù Colledan sembrava più portato per la carriera artistica che per la medicina. «Ho strimpellato un po’ la chitarra, come fanno tutti da ragazzi – ha raccontato -. Alle medie e al liceo ero abbastanza somaro, anzi deliberatamente somaro. Non studiavo e il risultato era questo: uno studente meno che mediocre. Ma in musica, avendo già preso delle lezioni, me la cavavo più che egregiamente. Poteva sembrare che ci fossi portato, ma in realtà erano tutte cose che avevo già studiato». Poi, però, ha cambiato marcia, almeno negli studi. «Sono stato uno dei migliori del corso, fin da subito e con grande stupore dei miei genitori. Volevo fare il chirurgo per un modello maschile di famiglia grazie a mio zio, il fratello di mia mamma, che esercitava questa professione. Mi affascinava da morire il mistero della sala operatoria, che io vedevo come un santuario».

A cura di Ivana Galessi