Dal coro dell’Immacolata di Bergamo all’Olimpo del DJing: il noto artista e producer racconta successi e intoppi di una vita all’insegna della passione per la musica.

Roberto Intrallazzi: per chi è nato negli anni ‘60 e ‘70, il nome del noto DJ bergamasco fa rima con FPI Project. L’eclettico artista presente nelle migliori consolle dei disco club internazionali ha vissuto una percorso di crescita umana e professionale costellato di successi, ma la sua vita è stata anche segnata dalla malattia. Lo racconta a Bergamo Salute.

Roberto, com’è iniziata la tua carriera nel mondo della musica?

Parliamo dei primi anni ‘80, del 1983 per l’esattezza. In Italia, quella del DJ non era considerata una vera professione, mentre all’estero alcuni musicisti avevano tanta rilevanza da avere addirittura delle vie a loro dedicate. Per questo erano davvero poche le persone che volevano intraprendere questa strada e molto spesso anche le famiglie non lo permettevano. La paura delle critiche era tanta. Il mio approccio al DJing è stato casuale e graduale. Da piccolo cantavo nel Coro dell’Immacolata di Bergamo, studiavo all’Accademia Musicale Santa Cecilia dove mi sono diplomato in teoria e solfeggio e mi dilettavo con il pianoforte, ma grazie a mia mamma avevo maturato una passione per dischi e vinili. Da lì, con il supporto (e i regali) di alcuni amici, ho iniziato ad avvicinarmi al mondo del mixaggio. Quando andavo in discoteca non stavo seduto sui divanetti, ma facevo di tutto per mettermi accanto al dj e vedere come funzionava davvero una consolle.

Quali le tappe che hanno segnato la tua carriera?

All’età di 16 anni, dopo aver affiancato per qualche tempo un DJ locale, sono riuscito a diventare resident DJ del Meeting Club in Maresana (Bergamo). Da lì è stata una vera escalation, che mi ha portato a suonare nei locali più importanti del territorio, che erano frequentati anche da gente importante. Sono partito per il servizio militare, poi sono tornato a Bergamo e ho ritrovato alcuni vecchi amici con cui ho fondato gli FPI Project. Incredibilmente, il nostro primo disco ha venduto 4 milioni di copie. Dopo il successo, ognuno ha preso la propria strada. Io decido di intraprendere una carriera da solista e inizio a suonare nei locali after hours di Milano e in tutta Italia dove non ero condizionato dalla musica che “andava di moda”, ma mi mancava sempre qualcosa. Nel 2005, con un amico, abbiamo aperto uno studio di registrazione e avviato il progetto The Cube Guys. Da allora, oltre a girare i locali di tutto il mondo, scrivere e produrre la nostra musica, abbiamo aperto un’etichetta discografica con la quale abbiamo supportato, ad oggi, circa 400 release. Abbiamo anche diverse sotto-etichette, di cui una solo per donne (Cleo, ndr.) e una per i giovani musicisti.

Fare il Dj è un lavoro impegnativo. Quanto è importante mantenere uno stile di vita sano? Hai stabilito una routine per mantenerti in forma?

Fisicamente mi mantengo in forma applicando ogni giorno quello che un mio caro amico personal trainer mi ha insegnato: con pochi e semplici strumenti riesco ad allenarmi in modo efficace, alternando sessioni di pesi a sessioni aerobiche e di stretching e adattandomi alla grandezza degli spazi in cui mi trovo. Dormo almeno otto ore per notte perché è l’unico modo che ho per essere davvero lucido durante la giornata. L’impegno fisico, comunque, non è tanto legato al lavoro del DJ in sé, ma alla logistica, ai continui spostamenti in aereo, ai cambi di fuso orario… Se fossi “sregolato” e non stessi al passo con cibo e sonno, mi sentirei uno straccio. Mi piace anche cucinare, ma sono un amante delle pietanze semplici.

Oggi come si svolge una tua giornata tipo?

Se devo lavorare, mi alzo, faccio colazione, mi alleno, controllo la posta, vado in studio di registrazione e ci resto fino alle 22, se sono ispirato. Altre giornate, invece, sono scandite da diverse attività. Nei fine settimana mi alleno e la sera vado a suonare da qualche parte. Non mancano mai la Messa e le passeggiate all’aria aperta, anche se dopo la scomparsa di mia moglie lo faccio con meno costanza.

Come gestisci lo stress e quali strategie usi per rimanere sereno?

Quello del DJ è un lavoro che, anche se all’apparenza non sembra, crea delle discrepanze a livello psicologico, anche perché diventato molto poco meritocratico. Prima soffrivo molto di questa cosa, tanto che mia moglie mi chiamava Peter Pan perché sembravo felice, ma in realtà non lo ero. Dopo la sua morte, ho cambiato completamente mindset. Prima c’era molta più fame di affermazione, adesso invece riesco a fare qualche passo indietro. Quando vivi sulla tua pelle la scomparsa di una persona amata, non te la puoi prendere con nulla, io cercavo conforto nella preghiera e nel raccoglimento. Adesso “volo un po’ più in alto”, se così si può dire, non con supponenza, ma con un po’ più di distacco, tenendo a freno la mia parte più rabbiosa.

Elena è mancata nel 2021 dopo una lunga lotta contro un tumore al seno. Come hai affrontato questo dolore?

Elena ha scoperto di avere un tumore nel 2014 e io nel 2015 l’ho sposata. Per quasi sette anni, quindi, mi sono preso cura di lei. Dopo una serie di terapie che negli anni sembravano darci qualche speranza, il tracollo è arrivato a febbraio del 2021. Elena era in un limbo, le avevamo provate tutte, tanto che avevo cercato di inserirla in una procedura sperimentale a Milano per il triplo negativo, uno dei tumori al seno più aggressivi. Il suo fisico però era troppo debilitato, qualsiasi terapia e qualsiasi medicinale non aveva l’esito sperato. Mi avevano proposto anche di trasferirla in una struttura assistenziale per facilitare le procedure di cura, ma insieme abbiamo preferito rifiutare. Ho fatto quindi mie tutte queste nozioni ed Elena è rimasta in casa con me fino alla fine. Da allora, nella mia vita si è formato un grande vuoto e mi sono affidato alla preghiera per provare a vedere le cose sotto un’altra luce. Per qualche tempo sono stato anche in terapia per processare il lutto, ma non avevo costanza, ero esausto. Dalla perdita di Elena ho acquisito però una seconda famiglia, quella dei miei suoceri per i quali sono diventato un figlio acquisito. Purtroppo, anche un mio familiare stretto adesso sta affrontando lo stesso iter medico di Elena e io me ne prendo cura ogni giorno.

Cosa ti ha insegnato il confronto con la malattia e la perdita di tua moglie?

Nel momento in cui viene a mancare una persona per cui hai dato così tanto, ti senti come se non valessi niente, perché non hai nulla da fare. Io sono rimasto a disposizione, cercando di dare una mano a chi ha bisogno. Questo mi fa tenere i piedi per terra, anche nel mio settore ho cambiato l’approccio con le altre persone, perché ho toccato con mano la sofferenza. In questo difficile percorso ho conosciuto anche delle persone stupende, medici, infermieri e OSS che ora reputo amici. Parlarne mi aiuta a processare e metabolizzare la perdita.

Sei coinvolto in iniziative per sensibilizzare sulla prevenzione del cancro al seno?

Sono coinvolto nell’associazione Amiche per Mano, nata nel 2016 a cavallo della diagnosi di Elena, presso gli spazi dell’Humanitas Gavazzeni. In quegli anni stava nascendo la Breast Unit grazie alla volontà e al contributo del dott. Massimo Grassi, senologo giunto alla Gavazzeni dopo un’esperienza lavorativa allo IEO di Milano. Dopo il suo pensionamento, la staffetta è passata al primario, il dott. Francesco Valenti. Le volontarie dell’associazione, guidate dalla presidente Paola Cornero, sono tutte pazienti che hanno affrontato o stanno affrontando il percorso di cura di un tumore al seno. Io ed Elena siamo stati tra i primi tesserati dell’associazione, ma lei molto spesso non voleva frequentarla per non dare peso ulteriore alla malattia. Io invece insistevo, perché lo stare insieme le dava una forza in più. Nel 2022, dopo la sua scomparsa, all’interno di Amiche per Mano è nato il progetto “Elena Mangili”, un servizio di estetica oncologica per le donne in trattamento chemioterapico. Io sono testimone di questa associazione e di questa iniziativa. Paola mi coinvolge in ogni cosa, fin dove posso essere utile. Oggi faccio anche delle lezioni nelle scuole infermieristiche portando la mia esperienza. Non sono un medico, ma ho vissuto in prima persona quanto, durante un percorso di cura, il sorriso, la misericordia e l’empatia verso il malato possano fare la differenza.

A cura di Ivana Galessi