Andrea Mastrovito
Una luce che riverbera, che ti prende e ti trasmette serenità. Nell’abside centrale c’è Cristo in Croce. Non sembra sofferente, è trasparente, luminoso. Così l’ha immaginato Andrea Mastrovito, l’artista bergamasco che ha realizzato l’opera nella chiesa dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII. Ora è a New York dove lo intervistiamo via Skype. 

Com’è nata questa sua opera?
Sono stato contattato nel 2011 dall’architetto Pippo Traversi che ha progettato la chiesa. All’inizio ho pensato ad una videoanimazione ma quando ho visto il cantiere a cielo aperto sono rimasto colpito dalla luminosità. E allora mi è venuta l’idea di usare due materiali per fare riverberare ancora di più questa luce: il vetro e la foglia d’oro, e con l’aiuto di un maestro vetraio eccezionale come Lino Reduzzi ho cominciato a realizzare il progetto. Una serie di vetri sovrapposti tutti meticolosamente tagliati e successivamente dipinti uno a uno con massima precisione. Ho pensato al posto, all’ospedale dove si soffre e ho cercato di trasmettere una grande serenità e leggerezza alla gente. E così leggendo il Vangelo di San Giovanni e parlando con Monsignor Gervasoni ho visto Cristo in un trionfo di luce, non morto in croce ma vittorioso sulla morte e risorto. E sotto c’è un pavone che è il simbolo della resurrezione. Tutto il dolore, il calvario, l’ho trasmesso nella Madonna, nell’abside a sinistra, nei suoi occhi prendendo ispirazione da “Ricordo di un dolore” di Pellizza da Volpedo e avendo come modella una mia carissima amica che mi ha insegnato molto nella vita con la sua storia. Una metafora per i pazienti. In chiesa si cerca di curare il dolore spirituale e quindi bisogna trasmettere serenità.

Quindi l’arte serve anche come terapia?
Alcuni psicologi utilizzano opere famose per aiutare i loro pazienti. E poi c'è l’arteterapia vera e propria. Le racconto un episodio che mi è capitato. Nel 2011 sono stato contattato dall’Ospedale di Baltimora che mi ha chiesto delle opere per il reparto di pediatria. Le feci e le spedii ma dopo qualche tempo mi tornarono indietro dicendo che i miei quadri non erano politicamente corretti perché c’erano solo personaggi bianchi e non neri. Rimasi di sasso, ma solo l’anno scorso grazie a una mia amica neuroscenziata ho capito il perché: a Baltimora i genitori di colore non vogliono portare i loro bimbi in ospedale perché sostengono che li trattano come cavie.

Come ha scoperto la sua vocazione ?
Per una scommessa con il mio amico Zizi, appena finito l’esame di maturità al liceo scientifico Lussana. Ho frequentato per quattro anni la scuola dell'Accademia Carrara, all'epoca il direttore era Mario Cresci, e quell'esperienza mi ha “aperto” la testa. E poi ho scoperto le tecniche di incisione con Claudio Sugliani, altro grande docente che continuava a ripetere “non avere paura di provare nuove soluzioni”. Direi che quasi tutti i miei lavori nascono dall’incisione praticata per anni all’Accademia: lì ho imparato, con molta fatica, a ripulire il segno.

Lei usa tanti materiali…
Sì di tutti i tipi, ma soprattutto la carta che è un modo molto diretto e ti permette di pulire il segno. L’uso della carta l’ho scoperto nel 2003 quando l’Atalanta retrocesse in Serie B dopo lo spareggio con la Reggina. Io sono un grande tifoso nerazzurro e mi chiusi in garage per una settimana a ritagliare carta senza parlare con nessuno, senza quasi mangiare per la rabbia e la delusione. Cercavo una soluzione che mi consentisse di abbandonare le bombolette spray che utilizzavo. Incollai i ritagli uno sull’altro e mi resi conto che la mia ricerca era lì sotto i miei occhi. E cominciai i miei primi collage. Anni dopo ho scoperto che tanti artisti lavoravano con la carta. Ce n’erano tanti alla mostra al Museum of Arts and Design di New York nel 2009 dove presentai una nave di carta gigantesca, la Santa Maria, che affondava.

Ma lei utilizza anche i libri
Ci lavoro parecchio. Sfogliare i libri è fondamentale, credo, per ogni artista. E io li uso anche per le mie installazioni. Per esempio partendo da “Lo straniero” di Camus nello scorso gennaio a Ginevra ho realizzato una serie di opere in cui i libri, aperti sui tavoli e con l'aiuto del disegno, ci appaiono come finestre di Windows.

In molte sue opere, invece, rende protagonista la gente
Coinvolgere il pubblico è necessario. Ho fatto così per “Le cinque giornate”, al Museo del Novecento a Milano nel 2011, in cui il pubblico per cinque sere consecutive ha dato vita a una sorta di coreografia da stadio. Credo che il mio lavoro non esisterebbe senza la gente, si nutre della massa e anzi si lascia plasmare da essa. Come “Kickstarting” (“Il calcio di inizio”) realizzato in un quartiere povero di New York dove sono riuscito a mettere insieme tanti ragazzi con tanti palloni.

Ma perché fa la spola tra New York e Bergamo?
Mia moglie che è designer lavora lì e io lì trovo grande ispirazione: in un giorno a New York vedi più cose che in un anno a Bergamo, sicuramente. Anche se poi lì mi mancano molto i miei, cui devo tanto. E ovviamente anche la Curva e i suoi ragazzi!

Lei ha vinto tanti premi e ha fatto mostre in Italia e all’estero. A quali tiene di più'
A quella che ho fatto alla Gamec (2014) e quest’anno a Ginevra. Ma soprattutto le installazioni che ho realizzato a Casa Testori nel 2011, una mostra che ha invertito il mio metodo di lavoro, io faccio centinaia di disegni al giorno ma da allora ho cominciato a pensare che è più importante la progettazione. Di premi ne ho vinto qualcuno come il Premio New York nel 2007, quello Moroso nel 2011 e Qui l’arte è di casa nel 2012. Inoltre ho vinto ll Pacco d’artista delle poste nel 2014.

Ma qual è l’esperienza che l’ha segnata di più?
Senz’altro un’estate al Dynamo Camp nel Pistoiese. Un’esperienza incredibile con ragazzi affetti da patologie gravi o croniche, invasive che li costringono a trascorrere tanto tempo in ospedale. E lì riscopri l’umiltà, la vicinanza con le malattie anche se le regole sono rigide e io e i miei assistenti per tre giorni non siamo riusciti, come artisti, a rispettarle. Ma poi ci siamo adeguati e questi ragazzi ci hanno preso il cuore.

QUANDO L'ARTE AIUTA A GUARIRE
Un’opera d’arte può aiutare a curare i malesseri della psiche. La visione di un quadro trasporta infatti in un mondo diverso e fa vivere delle sensazioni emotive. È un ampliamento degli orizzonti che facilita il contatto interiore e toglie dall’isolamento. Bisogna però essere aiutati da uno psicoterapeuta che attraverso l’arte introspettiva porta a scoprire strati molto profondi della psiche. 
Guardando un quadro emerge spontaneamente il nostro subconscio e il terapeuta può così osservare il coinvolgimento interiore del paziente e studiare una soluzione ai nostri problemi. Effetti terapeutici si possono raggiungere anche dipingendo, lavorando la creta liberando così la propria creatività e l'inconscio che è in noi. Spiegano gli esperti che l’arteterapia sia come visione di un quadro che come attività produce benessere e migliora la qualità della vita incrementando la consapevolezza di sé, superando situazioni di difficoltà e stress, esperienze traumatiche. Questa forma di terapia non riguarda solo la pittura ma anche musica, danza, teatro, costruzione e narrazione di storie e racconti. Tutti mezzi per il recupero e la crescita della persona nella sfera emotiva, affettiva e relazionale.

a cura di LUCIO BUONANNO